sabato 25 maggio 2013

giovedì 23 maggio 2013

Manifesto per la solidarietà europea




Nasce il Manifesto Per La Solidarietà Europea (European Solidarity Manifesto), un documento firmato da eminenti economisti europei, di diverse nazioni ( per l'Italia Alberto Bagnai e Claudio Borghi Aquilini ).
In questo importante documento si parte dal concetto che la crisi dell' Europa, la sua gestione e l' Euro stesso, stanno minando alla base le società europee, i loro valori di solidarietà sociale, le loro economie con pesantissime ripercussioni sulle popolazioni e sui ceti più deboli.
Il rischio che venga a mancare la tenuta sociale, che si arrivi a vere e proprie guerre civili e che aumentino viepiù le tensioni tra i diversi stati europei, è oggi una concreta minaccia.
Il manifesto si propone di richiedere l' uscita dall' Euro delle nazioni ad economia più forte ( Germania e altri paesi core ) lasciando l' Euro ai paesi della periferia, con l' intento di attuare su quest' ultimo una politica di svalutazione in modo da fare recuperare competitività a questi paesi.
Questo dovrebbe essere solo un primo passo verso il ritorno ad un sistema di valute nazionali o perlomeno all' individuazione di aree monetarie omogenee in Europa che consenta loro di adottare una stessa valuta.
E' questa, sostengono i firmatari, l' unica possibilità di fare ripartire dialogo e cooperazione tra i vari paesi europei e per ricominciare un discorso di integrazione e collaborazione che possa portare in futuro alla costituzione di una vera Europa. Qui sotto il link al sito ufficiale del manifesto.

http://european-solidarity.eu/index.php


venerdì 17 maggio 2013

Tempesta perfetta - Report e la banalità del male


L’AUSTERITA’ E’ STUPIDA, CREA SOFFERENZA E RITARDA LA RIPRESA: LA BANALITA’ DEL MALE


Nel 1963 la filosofa e scrittrice tedesca Hannah Arendtscrisse un libro e coniò un'espressione che descrive bene uno degli aspetti più ambigui e perversi del male: la sua banalità. Spesso chi fa del male non ha nemmeno la capacità di pensare e riflettere, la facoltà di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, un metro di giudizio affidabile per valutare le proprie azioni e ponderare le implicazioni morali e conseguenze pratiche del proprio operato. Nello specifico, la Arendt rimase impressionata dalla superficialità e dall’indifferenza con cui il criminale nazista Eichmann presenziò al processo che lo avrebbe portato alla condanna a morte per impiccagione: si trattava di un omuncolo normale, mediocre, né demoniaco né mostruoso, che per tutta la vita non aveva fatto altro che eseguire ordini e istruzioni che venivano dall’alto senza mai eccepire o chiedersi intimamente qualcosa sulla loro giustezza, moralità, razionalità. In una visione totalmente burocratica e alienante della vita, Eichmann eseguiva ed applicava incondizionatamente delle regole, pensando di essere un cittadino modello, un uomo onesto che rispettava le leggi e l’autorità costituita. Disquisire sulla bontà delle leggi e sull’assennatezza dei propri superiori era qualcosa che esulava dai propri compiti e principi, perché per Eichmann la cieca obbedienza e la fedeltà erano gli unici valori che riecheggiavano all’interno della sua misera coscienza.


Con le dovute proporzioni, possiamo dire che da questo punto di vista tutti coloro che oggi stanno condannando alla miseria, alla disperazione, all’emarginazione milioni di persone in Europa, dagli altolocati tecnocrati di Bruxelles fino all’ultimo scribacchino di un qualsiasi giornale di regime, non sono tanto diversi dai gerarchi nazisti che massacrarono milioni di ebrei nei campi di concentramento. Sono “banali” e stupidi allo stesso modo: o perché non conoscono le conseguenze delle proprie azioni o perché non hanno la capacità di ragionare su possibili alternative alle proprie regole e leggi evidentemente sbagliate. E’ indubbio che in mezzo a questa massa indistinta di idioti e mediocri ci sia qualcuno più furbo e più in malafede rispetto agli altri, che volontariamente persegue il male per tutelare il bene di una minoranza, ma diventa sempre più difficile e complicato distinguerlo e isolarlo dal resto della sgangherata e gioiosa armata di imbecillità collettiva. Il caso della trasmissione di domenica scorsa di Report, intitolata “Gli Austeri”, è esemplare in questo senso: per tutta la durata del programma si è insistito a sottolineare gli effetti nefasti dell’austerità e la maggiore ragionevolezza delle politiche espansive della spesa pubblica in periodo di recessione, eppure con la stessa miopia e cecità di automi decerebrati si è ripetuto che in Europa non si possono attuare né programmi di infrastrutture e investimenti pubblici né manovre monetarie di alleggerimento quantitativo a causa del vincolo del pareggio di bilancio e dellaperdita della sovranità monetaria. Facendo però velatamente intendere che  senza violare le regole e i vincoli previsti dai trattati europei esiste un geniale metodo intermedio per conciliare le politiche espansive con il mantenimento del pareggio di bilancio e della moneta unica privata chiamata euro. In altre parole si è trattato di un clamoroso e sfacciato spot della cosiddetta “austerità espansiva”, ovvero di una meschina mistificazione accademica che lo stesso Fondo Monetario Internazionale si è affrettato tempo fa a bocciare tecnicamente e a discreditare a livello politico e sociale.



Ma Milena Gabanelli cos’è? Un mostro, una demoniaca carnefice, un consapevole strumento della propaganda di stampo nazista? No. La Gabanelli è soltanto una delle tante persone “stupide”, “idiote”, “banali” che abbondano in questo periodo storico, la quale svolge il suo umile compitino pensando di fare il bene e ignorando invece di stare dalla parte del male. Ascoltando meglio le sue parole si capisce perfettamente che la giornalista di Raitre non sa nemmeno di cosa sta parlando quando si interroga su questioni come la spesa pubblica, il pareggio di bilancio, la politica monetaria di una normale banca centrale. Lei pensa che tutti i problemi dell’Italia siano dovuti agli sprechi, alla corruzione e all’evasione fiscale, prospettando il modello tedesco come l’unico eldorado virtuoso di felicità ed efficienza a cui ispirarsi. Eppure la Gabanelli è talmente “stupida” da non accorgersi che durante l’intervista del vice-capo economista della banca statale tedesca KFW, il dirigente con la solita superficialità e banalità di chi non sa di delinquere ammette di potere fare prestiti vantaggiosi alle imprese teutoniche grazie alla possibilità di finanziarsi con tassi di interessi bassi simili a quelli dei bund tedeschi e di ricevere ulteriori contributi dallo Stato per mantenere ancora più bassi gli interessi. Il modello tedesco quindi prospera su due evidenti storture e infrazioni dei trattati europei, a cui le altre nazioni, compresa l’Italia, sono costrette invece ad attenersi rigorosamente: da una parte l’incapacità della BCE di mantenere un tasso di interesse unico per tutti i paesi dell’unione monetaria e dall’altra il divieto di aiuti di Stato che possano avvantaggiare l’economia di un paese a danno degli altri, in aperto contrasto con il presunto spirito di cooperazione e collaborazione che anima almeno a parole gli stessi trattati.


Unendo a queste irregolarità, l’arcinoto dumping salariale iniziato con l'unificazione tedesca e concluso con leriforme Hartz del mercato del lavoro del 2003-2005, con cui la Germania ha lucidamente pianificato la suapolitica di concorrenza sleale e aggressione commerciale nei confronti dei paesi alleati dell’unione, si comprende come gran parte del successo tedesco sia basato non solo sulla rigidità di cambio imposta dall’euro ma anche e soprattutto sul mancato rispetto degli accordi e dei trattati europei (a tal proposito consiglio vivamente di leggere l’articolo del blog Orizzonte48, che chiarisce ancora meglio a livello giuridico e normativo gli aspetti tecnici della questione). In pratica, senza nemmeno capirlo o paventarlo, la Gabanelli vuole suggerirci che per uscire dalla crisi l’Italia dovrebbe essere scorretta e disonesta come la Germania: liberandosi dal tarlo dell’evasione fiscale e della corruzione (che guarda caso esiste, eccome se esiste, anche nella morigeratissima Germania), per abbracciare anima e corpo la strategia criminale della giungla giuridica e commerciale, chepremia in Europa chi non rispetta i vincoli e le regole. E tutto questo per dire che si possono attuare politiche di sviluppo in Europa senza uscire dall’euro, senza abbandonare la dottrina mistica dal pareggio dei conti pubblici e del consolidamento fiscale, senza pregiudicare le regole sacre del libero scambio, tutte cose cioè che la Gabanelli non auspicherebbe mai essendo anche lei impelagata fino al collo (per ragioni più politiche, professionali, carrieristiche) nella palude melmosa del “Sogno dell’Euro” e nella mitologia arcadica degli “Stati Uniti d’Europa”. Non è un caso infatti che durante l’intera trasmissione non venga neppure fatto un minimo accenno o una rapida menzione ai problemi derivanti dall’adozione di una moneta unica e per giunta privatizzata in Europa: come se l’austerità fosse una scelta arbitraria e provvisoria e non avesse alcuno stretto legame di interdipendenza con l’euro. Un errore tecnico e uno strafalcione giornalistico che crea più di un dubbio sulla buona fede della “banale” professionista della disinformazione.


E nella parte finale del programma la Gabanelli ha pure la sfrontatezza di pungolare la nostra distratta e inqualificabile classe dirigente, affinché si affretti a farsi furba e a seguire l’esempio criminogeno della Germania. Siamo al paradosso puro, in cui gli adorati paladini mediatici del bene come la Gabanelli denunciano da una parte i mali e i vizietti provinciali dell’Italia, invitando dall’altra i nostri politici a delinquere in maniera più vistosa e internazionale. E la cosa più inquietante è che i nostri politici, “idioti” e “stupidi” ancora più che la Gabanelli, pare che abbiano preso sul serio questo tipo di ammonimenti e invettive, dato che si sono rinchiusi per giorni in ritiro in un’abbazia per studiare mirabolanti teorie economiche espansive senza espandere effettivamente il bilancio pubblico. Un ossimoro, insomma: come chi cerca di lavarsi senza bagnarsi, chi vuole saziarsi senza mangiare, chi vuole dissetarsi senza bere. Va bene che la politica è l’arte del compromesso e della mediazione, ma c’è un limite alla decenza e alla capacità di sopportazione. Bisogna decidersi una buona volta nella vita: o si vuole l’austerità, il pareggio di bilancio, la cesura fra politiche fiscali e monetarie, il taglio della spesa pubblical’aumento delle tassel’elevata disoccupazione, la svalutazione interna dei salari, ladeflazione, le strategie mercantiliste di supporto alle esportazioni, le disparità e le sofferenze sociali e si rimane nell’euro. Oppure si decide di cambiare rotta con politiche espansive di spesa pubblica,coordinamento fra politiche fiscali e monetarietaglio delle tassestimolo alla domanda e alla produzione internasvalutazione monetariaaspettative inflazionisticheriduzione delle importazionipolitiche di piena occupazione e si esce dall’euro. La via di mezzo che mette al sicuro capre e cavoli, la soluzione salvifica dell’“austerità espansiva prospettata dalla Gabanelli e da tutti gli “idioti” come lei non esiste e non esisterà mai sul nostro pianeta. Bisogna farsene una ragione. E un giorno tutte queste persone, volenti o nolenti, dovranno assumersi la responsabilità di tutto il male che hanno “banalmente” e “distrattamente” fatto al nostro paese, turlupinando la gente con una serie interminabile di menzogne e rendendola ignara della verità dei fatti.


Fra l'altro, è’ interessante notare come dal punto di vista dei conti pubblici l’austerità non garantisce nemmeno il raggiungimento dall’agognato pareggio di bilancio o degli avanzi strutturali necessari per l’abbattimento del debito pubblico al di sotto della fatidica soglia del 60%, dato che il drastico calo del reddito nazionale non solo causa minori entrate tributarie ma peggiora i rapporti del deficit e del debito pubblico, che pur diminuendo in valore assoluto aumentano poi in termini percentuali. Mentre diverso è il discorso che riguarda invece i conti con l’estero visto che la distruzione dei redditi, dei risparmi, dei consumi nel sud Europa sta in effetti portando ad unaconvergenza delle partite correnti della bilancia dei pagamenti: diminuiscono le importazioni del sud e di conseguenza si stabilizzano o si riducono i surplus commerciali della Germania (guarda grafico sotto). Tutto ciò però sta avvenendo a costo di pesanti sacrifici, tensioni sociali, proteste diffuse sia nel sud martoriato che nel nord che ha visto man mano diminuire i suoi precedenti tassi di crescita.


La speranza folle è che una volta rimarginati gli squilibri si possa ripartire con un nuovo ciclo espansivo, trainato o da una maggiore domanda al di fuori dell’Europa (Stati Uniti e Giappone in testa) oppure da una ripresa dei consumi interni all’eurozona dovuta alla riduzione dei prezzi e al maggiore potere reale di acquisto dei risparmi, che secondo le immaginifiche previsioni degli eurocrati dovrebbe riportare la fiducia e spingere gli europei a ricominciare a spendere ed investire. E’ una strada insomma lastricata di dolore, dubbi, incertezzeche potrebbe presto interrompersi a causa delle rivolte popolari e delle reiterate bocciature elettorali che sicuramente si succederanno durante il faticoso percorso che ancora ci attende (ricordiamo che l’austerità in Europa è destinata a rimanere almeno per altri venti anni, come prescritto dai micidiali vincoli di abbattimento del debito pubblico previsti dal Fiscal Compact).


Ripetiamo che in altri paesi del mondo più “normali”, questi stessi aggiustamenti stanno avvenendo in modoinfinitamente più indolore e democratico puntando su una maggiore spesa pubblica e su un più incisivo intervento diretto delle banche centrali: invece di svalutare i salari, Giappone e Stati Uniti stanno scommettendo sulla svalutazione della moneta, che a conti fatti porta ugualmente ad una riduzione delle importazioni, aumento delle esportazioni, miglioramento della bilancia dei pagamenti nel suo complesso. Quindi la vera domanda che bisognerebbe porsi è a chi giova veramente il dolore e la sofferenza che si sta infliggendo agli europei, visto che altrove la situazione è molto meno drammatica e insidiosa. Se un certo evento negativo è evitabile e però accade lo stesso, significa che è fortemente voluto da qualcuno. Ed è ormai inutile ribadire che le oligarchie europee sono molto soddisfatte di come stanno andando le cose in Europa e non rinunceranno molto volentieri al loro progetto reazionario di ripristinare gli antichi poteri assoluti e monarchici nel vecchio continente. In fondo i vassalli, valvassini, valvassori e menestrelli di corte pronti a tutto per difendere il sovrano e ansiosi di entrare nelle grazie dei nuovi regnanti si moltiplicano con cadenza esponenziale, come sempre accade in qualsiasi epoca storica e latitudine geografica.   


Basta dare un’occhiata al prossimo grafico sulla competitività per capire il motivo di tanto appagamento da parte dei ricchi governanti e spregiudicati despoti. In termini di Costo del Lavoro per Unità di Prodotto (CLUP, in inglese ULCUnit Labour Cost), in Europa si sta assistendo ad un tentativo di convergenza che non punta molto sull’aumento della produttività, ma esclusivamente sulla riduzione dei salari e del reddito medio da lavoro dipendenteTuttavia siccome il vantaggio competitivo accumulato dalla Germania nel periodo di boom è amplissimo, è quasi impossibile per gli altri paesi ripristinare lo scarto nel medio-lungo periodo. Si tratta insomma di una gara già persa in partenza, che farà tanti morti e feriti lungo il cammino senza arrivare mai ad una conclusione certa e favorevole per tutti. L’aggressiva politica mercantilista tedesca sta forzando tutti gli altri paesi dell’eurozona ad intraprendere una folle corsa al ribasso dei salari e dei diritti dei lavoratori che si sa quando inizia ma non si sa quando finisce: visto che le condizioni al contorno non sono quelle ideali per augurarsi una ripresa dell’economia per mezzo di una maggiore produttività e di un rilancio delle esportazioni (e poi c’è il solito ma non trascurabile dettaglio che non tutti i paesi possono diventare esportatori netti contemporaneamente), questa gara senza quartiere per massacrare lo stato sociale, le costituzioni democratiche e il tenore di vita dei lavoratori porterà senza ombra di dubbio ad un ulteriore inasprimento delle tensioni sociali, che prima o dopo sfocerà in aperto conflitto (speriamo non armato, anche se esistono tutte le premesse affinché la conclusione di questo scontro epocale fra monarchici e democratici sia sanguinosa e violenta).


In buona sostanza, abbiamo visto che l’austerità funziona abbastanza bene come strumento di aggiustamento degli squilibri con l’estero, ma il prezzo da pagare in termini di coesione e malcontento generale è altissimo: come ripetono spesso gli esperti delle politiche del rigore, per applicare qualsiasi piano di intervento draconiano bisogna che ci sia un elevato grado di fiducia e di compartecipazione da parte di coloro che sono i principali danneggiati dai tagli. Ovvero proprio quello che manca ed è mancato in Europa in questi ultimi anni: lo scetticismo e lo scarso gradimento nei confronti delle azioni discutibili e delle scelte deprecabili della tecnocrazia europea ha infatti raggiunto, non a torto, il suo picco da diverso tempo. E come si può imporre dei sacrifici e delle privazioni alla gente che ormai non crede più nell’utilità di queste misure? Inoltre c’è un ultimo aspetto da considerare: la disoccupazione. Per favorire la dolorosa convergenza degli squilibri che si sta attuando oggi in Europa bisogna mantenere ancora per qualche anno un insostenibile tasso di disoccupazionenei paesi in deficit (stressed countries: Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna, Italia, Cipro, Slovenia) rispetto a quelli in surplus (vedi grafico sotto), perché un qualsiasi miglioramento nei livelli occupazionali della periferia potrebbe rendere vano il tentativo di recupero di competitività tramite svalutazione interna dei salari, far ripartire la ripresa delle importazioni e innescare la creazione di nuovi disavanzi commerciali. E fino a quando un’unione monetaria, che vive su impalpabili principi di omogeneità e uguaglianza di condizioni, potrà reggere ad una disparità così tragica ed evidente in uno dei fattori più determinanti e delicati nella vita sociale e politica di ogni singolo paese?


In definitiva, la Gabanelli e tutte le persone “banalmente” stupide (o “diabolicamente” malefiche) come lei, dovranno lavorare parecchio di trama e ordito per convincere milioni di persone che la via che si sta perseguendo oggi in Europa sia la migliore possibile e non esistano altre alternative valide per uscire dai pantani delladepressione economica fortemente voluta e assolutamente evitabile. Per restare in bilico e rimanere credibili per molti anni ancora servono talmente tanti e tali equilibrismi logici e linguistici che è davvero difficile prevedere la buona riuscita di una simile strategia da circensi mediatici e truffatori di bottega. Quello che gli europei, dai tedeschi ai greci passando per italiani, spagnoli, francesi, dovranno chiedersi da qui in avanti è se vale la pena sacrificare le proprie vite, il proprio futuro, le proprie speranze, le proprie aspettative, per mantenere alto il totem di una moneta unica, che si regge soltanto sulla sofferenza, sul dolore, sull’umiliazione delle classi lavoratrici a vantaggio di quelle agiate e dei rentiers. E visto che per fortuna sta nascendo in Europa un forte partito di dissenso trasversale e transnazionale nei confronti di questo vessillo della stupidità e della brutalità umana, sarà molto complicato che così come accadde al nazista Eichmann, anche la Gabanelli e i suoi sodali potranno un giorno giustificarsi di fronte alle accuse di collaborazionismo, con un semplice: “Ma noi non sapevamo!”. Sapete, sapete, altroché se sapete, ma siete talmente idioti, stupidi, superficiali, banali da non riuscire nemmeno lontanamente ad immaginare le conseguenze pratiche delle vostre azioni scellerate e leimplicazioni morali della vostra spregevole condotta.




domenica 5 maggio 2013

ARS - Il cuore pulsante dell' Italia

E' l'ora della mobilitazione, l' informazione non è più sufficiente, ora si tratta di unire le migliori forze del paese, quelle che hanno sempre trainato questa nazione, combattendo per una Italia più ricca ma anche e soprattutto più giusta, L' unione Europea e l' Euro sono di fatto strumenti del liberismo, profondamente antidemocratici, che hanno avuto ed hanno tutt'ora un ruolo determinante nella redistribuzione della ricchezza dall' economia reale ed in particolare dai soggetti più deboli alla rendita ed alla speculazione finanziaria, dalla finanza pubblica alla finanza privata, con tutto quello che ne è conseguito, oggi gli effetti di questa infinita serie di misure economiche, trattati internazionali e modifiche degli assetti istituzionali, si manifesta nel pieno della sua potenza e, se rimane fondamentale l' opera di informazione libera contro i luoghi comuni che vengono continuamente propalati dai media mainstream, è altrettanto vero che si rendono indispensabili forme di mobilitazione concreta perchè le istanze della classe media e medio-bassa del paese non vengano ancora una volta calpestate, quando inevitabilmente  ( secondo noi ) la costruzione dell' euro crollerà. Questo blog appoggia l' iniziativa dell' avvocato Stefano D' Andrea e il nascente movimento politico ARS che parte dalla sua incessante azione. Vi invitiamo a cercare i video di Stefano D'Andrea su Youtube ed a visitare i siti:

http://www.riconquistarelasovranita.it/
http://www.appelloalpopolo.it/

Nei quali troverete varie informazioni sull' attività presente e futura, vi potrete iscrivere e sostenere l' attività di questa nascente forza politica che definirei di sinistra patriottica. La richiesta, per chi non è nelle condizioni di donare di più, è veramente minima, si parte da 10 euro, ma anche qualora non ci si volesse iscrivere, si possono seguire le idee, le informazioni e le attività dell' associazione e si trovano i contatti mail dei rappresentanti locali di tutta Italia, con i quali si può entrare in contatto per offrire la propria professionalità, o semplicemente il proprio tempo. Ogni contributo è prezioso.


Il cuore pulsante dell' Italia

I contadini soldati della Roma repubblicana, gli artigiani e i mercanti dei liberi comuni, la piccola borghesia operaia e professionale del dopoguerra: da duemila anni questo è il blocco sociale che ha segnato, quando è riuscito a prevalere, i momenti migliori del paese. L'ARS si candida a rappresentarlo.

Il rischio di una soluzione elitaria

E' possibile che, anche all'interno delle élites europee che hanno voluto la moneta unica, sia in corso un confronto sulla fattibilità e sui costi politici del progetto. E probabile che il progetto fondato sull'ideologia ultraliberista (quella, per intenderci, che ipotizza la capacità dei mercati di autoregolamentarsi fino a trovare un equilibrio che garantisca il predominio delle classi sociali più abbienti, assicurando al contempo il funzionamento del mercato) appaia a una parte di queste élites come un obbiettivo sempre più irraggiungibile, se non al prezzo di una guerra totale interna al sistema capitalistico europeo. E dunque possiamo immaginare che, all'interno delle élites, si stia sviluppando una dialettica che ha per tema l'opportunità di continuare l'esperimento, oppure porvi termine tornando ad un assetto più tradizionale.


Il dibattito sul tema è però del tutto assente in Italia, soffocato da una censura che lascia pochissimo spazio alle voci dissenzienti. Solo sul web gruppi numericamente limitati di bloggers dibattono sulla crisi dell'euro, mentre la stragrande maggioranza delle persone resta in uno stato di totale inconsapevolezza, drogata da narrazioni fantasiose che spesso sconfinano nel terrorismo mediatico. Ce ne accorgiamo non appena apriamo una discussione sulla crisi con amici occasionali. La spiegazione più comunemente accettata ascrive alla corruzione la causa delle difficoltà, mentre ogni tentativo di dibattere la sostenibilità dell'euro provoca immediate reazioni di chiusura. A peggiorare le cose vi è il fatto che si sono diffuse, negli ultimi anni, alcune teorie "salvifiche", dal signoraggismo alla MMT introdotta dal giornalista Paolo Barnard, che stanno contribuendo, non poco, alla confusione imperante, anche tra coloro che, in buona fede, cercano di capirci qualcosa.Il discorso di Gianni Letta potrebbe essere letto in quest'ottica. I sondaggi che danno il nuovo partito "Alternativa per la Germania" intorno al 20%, e la clamorosa affermazione, nelle elezioni locali  inglesi, della formazione di Nigel Farage, l'UKIP, giunta al 25%, sono due segnali del fatto che ampi settori della destra europea non hanno più fiducia nel progetto euro. Troppo grandi sono i danni che la moneta unica sta causando a interessi corposi, per i quali le politiche di austerità, richieste per sanare gli squilibri indotti dall'euro, cominciano a non essere più accettabili. Queste, infatti, non danneggiano solo i lavoratori salariati, ma anche l'economia reale, in una misura che sembra non aver limiti. Una parte del capitalismo europeo ne ha, forse, abbastanza.
La situazione, dunque, è pessima. Né è di aiuto l'atteggiamento di alcuni economisti critici, i quali, pur dicendo delle mezze verità, sembrano tuttavia restii a prendere decisamente posizione contro la follia dell'euro, vagheggiando ancora possibili vie d'uscita basate su radicali modifiche dell'assetto istituzionale dell'Unione Europea, con proposte che vanno dagli eurobond alla generica invocazione di una fine dell'austerità. Solo uno sparuto gruppo di opinionisti, il cui nume tutelare è l'economista Alberto Bagnai, pongono con coraggio il problema nei suoi termini reali: l'euro, così come è, è insostenibile, e manca la volontà politica di cambiare le cose.
Il dibattito resta così circoscritto alle persone dotate di maggiori capacità critiche e non asservite a logiche di appartenenza politica. Come dire, una sparuta minoranza, nonostante il successo del blog di Bagnai. Così stando le cose, tutto il potere decisionale è, oggi, nelle mani delle élites, perché manca una sufficientemente ampia percezione di massa dei termini del problema. Questa circostanza pone un problema di estrema gravità: la prossima fine dell'euro (chi scrive la considera un fatto scontato) troverà l'opinione pubblica italiana assolutamente impreparata, e dunque ampiamente manipolabile. Il rischio è che l'uscita, quando ci sarà, venga gestita solo ed esclusivamente dalle élites. Il problema politico che abbiamo, ridotto nei suoi termini essenziali, è il seguente: come evitare che la transizione venga gestita esclusivamente dalle élites?

La soluzione non è Internet

La rete è uno strumento formidabile, ma la politica non è solo comunicazione. Si fa politica organizzando e disciplinando gli interessi delle classi sociali che si intende difendere, dunque militando e fondando un partito. La rete è uno straordinario strumento, ma non può sostituire la militanza. Coloro che pensano che basti dire la verità, perché possano cambiare le cose, commettono un errore di stampo illuminista, oppure pensano, in cuor loro, che sia destino che le grandi decisioni vengano prese, sempre e comunque, dalle classi dominanti. Ma ciò che le rende "dominanti" è proprio la loro capacità di agire in modo coordinato, confinando al loro interno il dibattito reale, anche quando questo è massimamente aspro, come è più che possibile stia accadendo proprio ora. Le classi dominanti, al contrario di quelle subordinate, non hanno perso il valore della militanza, e anzi hanno operato pervicacemente al fine di convincere i dominati del fatto che questa sia qualcosa di superato, di vecchio, perfino contrario alla vera democrazia. La quale, invece, vivrebbe di partecipazione continua, oggi finalmente possibile grazie alla rete. Una boiata pazzesca, alla quale molte persone, anche intelligenti e colte, hanno finito con il credere.
La militanza, invece, è l'unico strumento per mezzo del quale le classi subordinate possono sperare di confrontarsi con successo con le classi dominanti. Si tratta di selezionare e formare, attraverso le strutture di un partito, una classe dirigente capace di organizzare e rappresentare interessi di classe che, nella vita reale delle persone, sono individuali, pur costituendo, nel loro insieme, un blocco sociale. E' un lavoro faticoso, che pretende dedizione totale, non sostituibile dalle forme di partecipazione diffusa e, per forza di cose, occasionali, vagheggiate dai fautori della democrazia diretta. Questa, al più, può svolgere, se democraticamente istituzionalizzata, la preziosa funzione di controllo delle degenerazioni cui finisce con l'andare incontro la forma partito tradizionale. Cosa che accade, per altro, ad ogni costruzione umana. Ma rifiutare la forma partito, e il valore della militanza, solo perché gli attuali partiti sono degenerati e corrotti, significa gettare il bambino con l'acqua sporca.
L'unico tentativo serio di costituzione di un nuovo partito di classe, con cui io sia entrato in contatto, è l'ARS (Associazione Riconquistiamo la Sovranità), al quale ho infatti aderito. L'ARS è un partito di classe perché si propone di organizzare gli interessi di un blocco sociale, identificabile nella piccola borghesia operaia e professionale, nella quale viene individuato il cuore pulsante del Paese. Si tratta di quello stesso blocco sociale che, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, a causa della situazione internazionale si divise, finendo con l'essere rappresentato in parte della Democrazia Cristiana, e in parte dal Partito Comunista Italiano e dal Partito Socialista Italiano. Questi partiti, sebbene schierati ideologicamente su fronti opposti, seppero tuttavia trovare un punto di equilibrio, la cui stella polare fu, per decenni, l'interesse generale del Paese. L'estremo tentativo di conciliare quella divisione artificiale, indotta dalla guerra fredda, naufragò negli anni settanta, allorché il nostro paese divenne terreno di scontro degli interessi delle grandi nazioni vincitrici. Ma quel blocco sociale, che ovviamente rimane attraversato da contraddizioni e conflitti, è ancor oggi il vero argine agli interessi predatori del grande capitalismo globale sovranazionale, e, in questa fase, deve ritrovare unità d'azione e di intenti. Organizzarlo, dargli una rappresentanza, è oggi l'obbiettivo politico dell'ARS. L'uscita dall'euro prossima ventura, se riusciremo a dare forma e sostanza a questa iniziativa politica, non sarà gestita solo dalle élites globaliste. 


Fiorenzo Fraioli per Ecodellarete.net

lunedì 22 aprile 2013

ORIZZONTE48 - IL "VERO VOLTO" DI LIBERALIZZAZIONI E PRIVATIZZAZIONI "UE"...E DEL SISTEMA DELLE SOCIETA' PUBBLICHE


Per quelli che " la spesapubblicaimproduttivaprivatoèbello" Un interessantissimo post da Orizzonte48 e da una sua valentissima collaboratrice sulle privatizzazioni, cosa c'entrano con l' euro e l' europa ? C'entrano c'entrano, leggete e capirete, Post lungo ma ne vale la pena.

Dunque, con questo interessante post di Sofia, prosegue la "creazione collettiva" del nostro discorso. Perchè non solo questo è un blog "aperto" ma si crede fermamente che "un uomo solo al comando" (...e il suo nome è Fausto Coppi) sia una debolezza, non una forza. Tutti, ma proprio tutti sono chiamati a cercare di capire come stanno le cose e ad esprimere la propria scelta, e passione, per la Costituzione democratica, sociale e fondata sul lavoro.
Quanto a Sofia, è la "persona" che mi fa pensare, anzi gridare: W LE DONNE!
Le donne sono il più grande serbatoio per questa nuova frontiera della "liberazione democratica"
Le donne forti e coraggiose, e sono tante, che ci possono insegnare, a noi "uomini" (non uso il detestabile "maschietti",  luogomunista insopportabile), non solo come ci si impegna senza dover "fare la ruota del pavone", ma anche come si si debba sempre rialzare quando si cade. E non darsi mai per vinti.
So quanto le sia costato fare questo post che è la rielaborazione di un più ampio lavoro che era "troppo", (un vero breve ma splendido trattato), per poterlo divulgare in questa sede.

Una seconda precisazione introduttiva. 
Sofia ci spiega, con felice sintesi, la "Costituzione economica" democratica, concepita nel '48. Qui rammentiamo il problema della "abrogazione implicita" del dettato costituzionale operato dai trattati UE-UEM, senza però che ci sia mai stata alcuna seria riflessione sulla sufficienza della "copertura" apprestata dall'art.11 Cost per un tale effetto "modificativo" del patto fondamentale democratico Noi sappiamo come ciò non sia corretto secondo la più autorevole dottrina costituzionale.
Ma se il post evidenzia anche come proprio la "modifica" strisciante della Costituzione abbia alimentato sprechi di risorse pubbliche e prestazioni di servizi più costose e inefficienti in nome del "profitto", -e per noi non è una sopresa, anzi-, ciò non significa che questi "sprechi" e "profitti" contrari all'interesse pubblico "costituzionalizzato" (!) implichino che si debba procedere a tagli ulteriori della spesa pubblica.

E' anzi inammissibile che ogni inefficienza CAUSATA PROPRIO DALLA LOGICA UE DIVENGA UN PRETESTO PER...RAFFORZARLA!
Dice bene Piero Valerio su "tempesta perfetta": "In Europa i tecnocrati e gli oligarchi hanno stabilito dogmaticamente e arbitrariamente chel’emissione della moneta deve essere privata, autonoma, indipendente dalla politica perchè hanno decretato per trattato che la spesa pubblica dello Stato è un male assoluto e i “mercati” sono molto più efficienti nel processo di allocazione delle risorse finanziarie. Ora, senza entrare nel merito della correttezza scientifica ed economica della regola di cui ci sarebbe tanto da discutere, chi giudica se l’applicazione di questa regola sia effettivamente corretta? Chi dice se uno Stato sta usando bene o male la spesa pubblica? Un ente esterno e terzo ai due contendenti? Assolutamente no, ma i “mercati” stessi, che sono la controparte che si è avvantaggiata di più dall’introduzione di quella regola, e il loro metro di giudizio si chiama spread".
Questa felice sintesi impera anche nell'interpretare il fenomeno di "liberalizzazioni e privatizzazioni". Come vedremo, con non trascurabili svantaggi proprio in termini non solo di qualità  e costo dei servizi, per i cittadini, ma anche di "efficienza" del sistema, quella che l'affidamento al "libero mercato" dovrebbe promuovere (anche se si tratta essenzialmente di monopoli naturali su cui ci si è stranamente affrettati a far..."volere l'europa"). E ciò nelle parole stesse della Corte dei conti, che, a differenza dei legislatori caotici e frettolosi degli ultimi venti anni, "i conti", (nell'interesse pubblico), li sa fare bene e senza nasconderne la realtà e il significato.


Liberalizzazioni e privatizzazioni sulla spinta di imposizioni comunitarie tese a “realizzare”il libero mercato: alcuni fatti e dati.
1.     Cenni al fenomeno delle liberalizzazioni e privatizzazioni.
Il rapporto tra lo Stato e il sistema economico-produttivo è sostanzialmente contenuto in quella che viene definita la Costituzione economica italiana ossia gli articoli 41, 42 e 43.
Per quello che interessa in questa sede deve porsi l’attenzione al terzo comma dell’art. 41 “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. 
Proprio sulla base di tale ultima disposizione si è basata la politica economica e industriale italiana dagli anni cinquanta alla fine degli anni settanta del secolo scorso. Si trattava di una politica economica  imperniata sul concetto cardine di programmazione economica che poteva avvenire anche attraverso la limitazione o l’eliminazione della libera concorrenza affidando l’esclusività della produzione, in determinati ambiti del sistema economico, allo Stato (monopolio pubblico legale). Ciò anche sulla scorta dellart. 43 che stabilisce : “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
La costituzione, quindi non accenna alla libera concorrenza che comunque, sino agli anni 80, era di fatto limitata da molteplici elementi, tra i quali proprio la sussistenza dei monopoli e dal fatto che l’economia nazionale era un’economia parzialmente chiusa con limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci. La concorrenza non era considerata una forza da incentivare, perché ritenuta una  forza destabilizzante, fonte di squilibri e disuguaglianze che andava incanalata in un’ottica di programmazione economica a sostegno dei fini generali.
A partire dagli anni 80 questa impostazione incomincia a subire cambiamenti sulla scorta dei mutamenti legislativi avviati dalla comunità europea che esercita una forte spinta, da una parte, per una liberalizzazione tra le diverse economie nazionali dell’UE e, dall’altro, per una liberalizzazione all’interno dei paesi.
La piena liberalizzazione dei mercati verso l’esterno è avvenuta sulla base di vari atti o accordi comunitari (l’Atto Unico del 1987 basato sul libro bianco del 1985 per il completamente del mercato unico; la Direttiva 88/361/CEE sulla liberalizzazione del mercato dei capitali;  il trattato di Maastricht e di Roma;  le direttive CEE sulla libertà di accesso e sulle garanzie di pari opportunità delle imprese pubbliche e private nell’ambito del mercato comunitario;  la direttiva “Bolkenstein” 2006 che ha affermato la piena libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi).
La liberalizzazione all’interno è stata invece favorita dalle istituzioni europee tramite direttive specifiche per ciascun singolo settore che hanno imposto laliberalizzazione (con l’eliminazione delle imprese pubbliche ex monopoliste) e laprivatizzazione totale o parziale delle stesse. A cui si è aggiunta una massiccia politica per la concorrenza che ha vigilato in tema di aiuti di Stato, concentrazioni, abuso di posizione dominante, intese e che sanziona ogni distorsione della libera concorrenza nell’ambito dei servizi di rilevanza economica (ossia pressoché tutti).
Emerge comunque, già da questi pochi assunti, un quadro che confligge in maniera stridente con il testo e lo spirito della Costituzione economica italiana che avrebbe dovuto porre all’attenzione delle istituzioni un serio problema di conflitti tra due fonti normative primarie: da un lato i trattati europei di ispirazioni univocamente e rigidamente liberista, dall’altro la Costituzione italiana che se pure è elastica ed aperta a molteplici soluzioni di politica economica e industriale, è esplicitamente sensibile alla centralità della programmazione.
La prima fonte ha finito per prevaricare sull’altra a tal punto che si è determinata una sorta di  neutralizzazione della sostanza della Costituzione economica italiana a favore di un’acritica adesione ai trattati comunitari, senza che siano ancora del tutto chiari gli effetti di questa operazione.
Certo è che la legislazione comunitaria e gli imposti principi del libero mercato hanno avuto un ruolo fondamentale e determinante nel processo delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, depotenziando fortemente le imprese pubbliche nazionali. Ed hanno portato ad una radicale modifica del sistema economico pubblico interno, in parte, facilitato  dalle disposizioni di cui agli artt. 41 e 43 della Cost.
La Costituzione, infatti, con il suo riferimento generico all'iniziativa economica pubblica (art. 41) riconosce allo Stato ed in generale ai pubblici poteri il potere di svolgere attività a carattere imprenditoriale. La portata di tale potere è assai più larga di quella indicata dall'art. 43 Cost.
Infatti non vi sono limiti nella tipologia delle attività assumibili, sicché non si dovrà trattare necessariamente di servizi pubblici, fonti di energia o monopoli.
La materia, inoltre, non è soggetta a riserva di legge, per cui vi si può provvedere in via amministrativa.
In tal caso, occorre solo che l'assunzione sia giustificabile per un qualche interesse pubblico, alla pari di ogni altra azione amministrativa (anche se in concreto questa condizione è stata spesso superata autorizzando le assunzioni singolari direttamente con leggi).
Questo stato di cose (utilizzato in maniera distorta dal sistema politico italiano) insieme ai condizionamenti e alle forzature comunitarie, ha portato ad un progressivo cambiamento della forma giuridica dell'impresa pubblica verso assetti più flessibili ed adeguati all'esercizio di attività imprenditoriali ed, in particolare, la trasformazione delle aziende autonome e degli enti di diritto pubblico in società di diritto privato con risultati disastrosi per l’economia nazionale, di cui si forniscono solo alcuni dati e spunti di riflessione.

2.     Le società pubbliche.
Le società pubbliche sono uno strumento utilizzato dalle amministrazioni, generalmente, per svolgere compiti istituzionali ad esse affidati per legge e allo scopo dichiarato di:
- voler perseguire una maggior efficienza economica nella gestione di servizi pubblici;
- realizzare opere attraverso l’utilizzo di strumenti privatistici;
-  sostenere l’attività di impresa e l’occupazione.
A fronte di tali scopi, senz’altro pregevoli, ciò a cui si è assistito è stato una crescita esponenziale di soggetti di natura privatistica, che difficilmente è avvenuta sulla base di idonei studi preliminari di convenienza economica e di analisi del mercato nel settore di riferimento. Al contrario, senza alcuna indagine preventiva di necessità e opportunità, si è assistito alla costituzione di società o comunque di figure soggettive alternative agli ordinari uffici ed organi dell’ente, per  ogni compito amministrativo.
Ma quel che è più grave è che, se pur nell’ottica di realizzare scopi significativi, si è avuta la proliferazione di società operanti sotto il controllo di forze politiche.
Sono queste, infatti, che incidono sui principali aspetti delle società pubbliche ossia:
- la loro costituzione, attraverso l’individuazione di programmi e finalità che vengono tacciati per essere assolutamente necessari alla realizzazione dei fini istituzionali e nell’interesse della collettività, ma che molto spesso rispondono a obiettivi “politici”, stabiliti discrezionalmente dalle istanze di governo;
- la loro gestione,attraverso:
i. nomine dirette di amministratori da parte dei rappresentanti politiciche sono al governo (e che a loro volta subiscono le pressioni dei vari livelli territoriali su cui operano o da cui provengono) indipendentemente da qualunque idonea qualifica professionale e senza alcuna delimitazione quanto a cause di incompatibilità e conflitti di interesse;
ii. impegnando risorse pubbliche nell’assunzione di personale senza procedure concorsuali. Infatti, la forma giuridica prescelta sottrae queste imprese al regime legale di determinazione delle piante organiche e delle assunzioni mediante pubblico concorso, spostando di fatto il gioco clientelare delle assunzioni su questi soggetti.
iii. impegnando ulteriori risorse per acquisizione di beni e servizi spesso eludendo e  aggirando le procedure pubblicistiche di derivazione europea nella contrattazione relativa agli appalti.
Ovviamente, tutto questo è stato possibile anche per il fatto che a livello legislativo è mancata la delineazione di principi  fondanti, di finalità che fossero riconosciute meritevoli di essere realizzate attraverso la forma societaria, di modalità sia preventive che successive di verifica sull’operatività, la economicità e la convenienza di tali soggetti.
E’ mancato un sistema di controllo effettivo sugli atti di spesa, così di verifica\controllo della cessione\riacquisto delle partecipazioni rispetto a soci privati (si pensi all’abolizione generalizzata su tutta la p.a., del controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sugli atti di gara per pubblici appalti).
A ciò deve aggiungersi che la proliferazione del fenomeno ha trovato ampi margini di manovra anche per l’irrompere delle nuove competenze legislative esclusive delle regioni che si sono servite dell’istituto societario allo scopo di voler sostenere la politica economica di asserito sostegno al “privato”.
Anche gli interventi legislativi, lontani dall’affrontare il problema in maniera sistematica e strutturale, si sono nascosti dietro diversi espedienti (prima la necessità di ristabilire equilibri concorrenziali, poi di ridurre la spesa pubblica) per apportare  tagli in modo lineare, soprattutto a Regioni e enti locali che, lungi dal rivedere in termini di efficienza le proprie strutture societarie, hanno finito per tagliare i servizi spesso indispensabili per la collettività.
Le dimensioni del problema, acuite dalla sostanziale sottrazione alla concorrenza dell’attività di una parte di  queste società, sono piuttosto oscure, in assenza di una trasparente ricognizione dei dati relativi a bilanci, profitti, ricapitalizzazioni in corso di attività e redditività degli investimenti.
L’entità delle dimensioni si percepisce soltanto dalle ricadute in termini di spesa pubblica dall’entità e disomogeneità degli interventi normativi nel settore; da ultimo le recenti norme sulla spending review che vanno ad interessare le società pubbliche, anche se è troppo presto per comprendere se gli interventi previsti saranno adeguati alla necessità di ripristino di situazioni di legalità, economicità ed efficienza di cui ci sarebbe bisogno.

3.     Alcuni dati numerici sull'entità del fenomeno.
Rinvenire dati esaurienti sul numero e la tipologia delle società pubbliche e sullo stato di salute economico-finanziario delle stesse per riuscire quantomeno a comprendere se le amministrazioni sono riuscite a perseguire gli scopi di pubblica utilità che si erano prefissate con la loro costituzione, non è cosa agevole.
In base all'articolo 1 della Legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (“Operazione Trasparenza”) le Amministrazioni devono comunicare al Dipartimento della Funzione Pubblica le partecipazioni in consorzi e società partecipate. 
Accedendo al sito www.consoc.it–per l’anno 2011 si rinviene un file in excel(http://www.perlapa.gov.it/web/guest/partecip2011) che dovrebbe contenere le partecipazioni delle pubbliche amministrazioni in consorzi e società partecipate.
Da questo documento le partecipazioni in consorzi/società/fondazioni (non quindi il numero di società) ammonterebbero a 39.357. E si tratta comunque di dati relativi poiché la ricognizione è su base volontaria.
La Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, con l’Indagine sul fenomeno delle partecipazioni in società ed altri organismi da parte dei comuni e province del giugno2010 ha fornito alcuni dati quantitativi del fenomeno che però si riferiscono all’arco temporale 2005-2008, sono stati rilevati 5.860 organismi partecipati da 5.928 enti (attenzione però perché si tratta solo di Comuni e Province, escluse quindi regioni e amministrazioni statali) costituiti da 3.787 società e 2.073 organismi diversi (dati che sono riportati nel documento n. 337 del 4.4.12 della Camera dei Deputati rinvenibile suhttp://documenti.camera.it/leg16/dossier/Testi/BI0506.htm#_ftnref2). 
La Corte dei Conti conferma che con riferimento ai risultati economici delle società partecipate, nel triennio 2005-2007, dall’indagine risulta che 568 società, corrispondenti al 22,35% del totale, sono sempre in perdita. 
L’area di attività prevalente per le società sempre in perdita è quella dei servizi diversi dai servizi pubblici locali (con il 63,32% delle società sempre in perdita).
Nell’area dei servizi pubblici locali, il settore che mostra la percentuale più elevata di società in perdita è quello dei trasporti, seguito dal settore dell’ambiente – rifiuti. La Corteconferma che la costituzione e la partecipazione in società da parte degli enti locali risulta essere spesso utilizzata quale strumento per forzare le regole poste a tutela della concorrenza e sovente finalizzato ad eludere i vincoli di finanza pubblica imposti agli enti locali.
Ma anche il precedente documento n. 237 del 27.5.2011 della Camera dei deputati (http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/bi0409.htm#_ftnref2), richiamando una ricerca dell’Assonime,  parla di 5000 società a partecipazione pubblica.
Anche l’ANCI ha estratto dal sistema informativo del registro delle imprese i dati di tutte le imprese tra i cui soci al 31 dicembre 2010 figurava almeno un Comune.
Il risultato dell’estrazione ha dato 4.206 imprese (che si ribadisce sono solo comunali). Dall’esame dei bilanci depositati, inoltre, l’ANCI ha ricavato i seguenti dati: Valore della produzione complessivo 24.893.483.916, Costi del personale7.254.217.511, Utile totale delle società in utile 824.662.289, Perdite totali delle società in perdita -581.216.033.
Un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera dell’8.10.12 (http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_08/quelle-societa-in-rosso-finanziate-da-regioni-antonella-baccaro_83723228-110b-11e2-b61f-b7b290547c92.shtml) richiamando una relazione di agosto della Corte dei Conti, pubblicava dati ancora diversi in base ai quali risulterebbero censiti 394 organismi partecipati di proprietà delle Regioni e per questi le perdite ammonterebbero a 92 milioni di euro solo per le partecipate al 100% delle regioni a fronte di 780 mil versati a titolo di contributo in conto esercizio e corrispettivi (solo per avere dati di confronto numerici si ricorda che soltanto l’ultima manovra finanziaria ammontava a circa 10 milioni di euro).
Vista l’impossibilità di  avere dati omogenei e certi con riferimento a tutto il territorio nazionale (e questo è già indicativo di una ingiustificata distorsione del sistema), i dati parziali su emersi servono comunque a comprendere l’entità del fenomeno in termini economici, a cui si aggiungono ulteriori e inammissibili alterazioni del sistema pubblico con riferimento al regime di concorrenza, alle assunzioni del personale, alle nomine degli amministratori ecc..

4.     Considerazioni critiche conclusive.
Che il fenomeno societario si sia rivelato un autentico disastro per l’economia del paese non lo dice solo la scrivente, ma si rinviene in atti e documenti ufficiali che provengono anche dalle più alte cariche dello Stato.
Ad esempio il Documento della Camera dei Deputati n. 237 del 27.05.11riporta: “Recentemente, il legislatore è poi intervenuto ulteriormente sul fenomeno della proliferazione delle società a partecipazione locale, con l’intento di rimediare alle distorsioni di cui tale fenomeno è foriero: distorsione della concorrenza ed aggiramento dei vincoli di finanza pubblica in capo agli enti territoriali” (http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/bi0409.htm), ed il doc. 337 del 4.4.12 ha aggiunto che “A tale fenomeno distorsivo il legislatore ha ritenuto di dover porre rimedio attraverso l’adozione di specifici divieti alla costituzione e al mantenimento di società”
Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012 (http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/documenti_procura/friuli_venezia_giulia/relazione_perlx_inaugurazione_dellxanno_giudiziario_2012.pdfilProcuratore Regionale della Corte dei Conti per il Friuli Venezia Giulia-Trieste ha dichiarato: “E’ quindi da chiedersi se il ricorso allo strumento delle società per azioni fornisca strumenti sufficienti e soprattutto adeguati ai bisogni propri del sistema pubblico, dove l’obiettivo principale non è il profitto, ma, al contrario, il conseguimento dell’efficienza e dell’economicità dell’attività.  
Proprio in un periodo, in cui, come quello attuale, la situazione finanziaria ed economica sfavorevole rende drammaticamente indispensabili comportamenti gestori che assicurino ai cittadini i servizi necessari senza il pericolo di sprecare risorse, ormai limitate e, quindi, molto preziose, sembra proprio che il modello societario rappresenti per i contribuenti più un pericolo che un’opportunità” 
Ed aggiunge, mettendo in risalto una delle più importanti anomalie del sistema delle società pubbliche che “Lo strumento societario, che è previsto nel diritto civile come naturalmente preordinato a finalità di lucro, e che come tale risulta non sempre perfettamente aderente alle esigenze del sistema pubblicistico,comporta, laddove finanziato con capitale pubblico, l’ulteriore anomalia della non coincidenza della figura del socio finanziatore (i contribuenticon quella del socio titolare dei diritti di partecipazione sociale (la pubblica amministrazione partecipante). In buona sostanza mentre nel caso del privato investitore la decisione di assumere il “rischio” di una partecipazione è diretta, nel caso delle partecipazioni pubbliche il contribuente finanziatore paga i tributi per avere servizi, scontando poi le conseguenze di decisioni di partecipazione societaria assunte, talvolta avventatamente, dai singoli enti”. 
Ed ancora “Non possiamo esimerci dall’evidenziare che attraverso le società create dagli enti locali e dalla Regione possono verificarsi situazioni di dilapidazione del denaro pubblico, soprattutto quando i servizi, per i quali sono state create e giustificate, non vengono resi o vengono resi in maniera insufficiente e costosa.  Una recente sentenza (n. 402/2011) della Sezione Prima Centrale di Appello della Corte dei Conti ha condannato gli amministratori di un comune e di una società controllata per la costituzione e la gestione antieconomica di una partecipata. Contrariamente a quanto affermato nello statuto e negli atti costitutivi, la società non sarebbe stata utilizzata per rendere più efficienti ed economici i servizi dell’ente locale, ma per perseguire scopi occupazionali…L’utilizzo di strumenti, di per sé legittimi, quali le partecipate, al solo scopo di eludere i vincoli di finanza pubblica e le regole di contenimento della spesa, costituiscono un comportamento gravemente colposo se non addirittura doloso che è produttivo di danni erariali e coinvolge la responsabilità degli amministratori locali e regionali da verificare nel giudizio davanti alla Corte dei Conti
Difatti alcune inchieste di questa Procura hanno riguardato situazioni di turbative di aste pubbliche, di utilizzo indebito di finanziamenti pubblici, se non addirittura di appropriazione di denaro pubblico. I fatti accertati potrebbero essere solo la punta emersa di un grosso iceberg…La mancanza di effettivi controlli sia nelle procedure di scelta dei soggetti privati, cui affidare le forniture di servizi o gli appalti pubblici sia nelle fasi successive di esecuzione dei contratti di servizi e di lavori costituiscono situazioni di pericolo, in cui possono insinuarsi scambi di favori o dazioni di denaro”.
Sconcertanti, poi sono anche i dati giudiziali che emergono dal discorso. Il Procuratore (e si evidenzia che i dati riguardano il solo territorio del Friuli) riferisce che “Le citazioni emesse nel 2011 contengono richieste di risarcimento danni per un importo complessivo di euro 10.372.902,05…Deve essere, comunque, osservato che, a seguito degli atti istruttori e degli inviti a dedurre formulati da questa Procura Regionale, sono state recuperate somme per un importo complessivo di euro 11.701,24.
La sintesi su riportata sulle società pubbliche induce ad un atteggiamento assolutamente critico nei confronti di questo fenomeno che ha determinato enormi perdite per la finanza pubblica  ma che soprattutto induce a forme di avversione e repulsione per un sistema che palesemente favorisce clientelismi, favoritismi, compravendita di voti politici e quant’altro.
Nonostante il legislatore si sia avveduto della gravità del fenomeno e abbia tentato di porre rimedio stabilendo anche limiti alla costituzione di nuove società e alla dismissione di alcune di esse si è ancora ben lontani dal raggiungimento di risultati soddisfacenti.
Invero anche le nuove disposizioni introducono importanti deroghe che confermano la volontà del legislatore di mantenere in vita il modello della società a partecipazione pubblica strumentale, quando invece negli ultimi tempi (v. Rapporto Assonime, ma anche il Rapporto CER)  alcune riflessioni avevano auspicato il superamento della forma societaria per il ritorno a modelli pubblicistici coerenti con la natura delle attività svolte[1] oppure avevano suggerito sistemi di risanamento rimasti inascoltati (rapporto dell’OCSE sulla governante delle State OwnedEnterprises - SOE[2]).
 Così come il legislatore non ha previsto meccanismi preventivi per la valutazione della convenienza e dell’opportunità di costituire società, non ha previsto la ricognizione di quelle già costituite al fine di verificarne la convenienza; non sono state introdotte norme che predeterminino i requisiti di nomina degli amministratori; non sono stati introdotti i controlli preventivi di legittimità della Corte dei conti  sugli atti ed in particolare su quelli di avvio della contrattazione relativa agli appalti per tutti i soggetti tenuti all’osservanza delle regole dell’evidenza pubblica, inclusi quelli societari.
In conclusione, anche l’ultima riforma, per la necessità di ridurre la spesa pubblica  sulla spinta di propulsioni europeiste e pressioni comunitarie (ancora una volta), sembra aver perso un’altra occasione per rivedere un impianto in cui principi e norme pubblicistiche e privatistiche convivono in un connubio improbabile e per questo difficilmente gestibile, ma che per converso si presta a facili elusioni, distorsioni, giochi di potere e clientelismi che hanno quale unica conseguenza lo sperpero di ingenti risorse economiche pubbliche  e il disfacimento del sistema dei servizi pubblici in danno della collettività.


[1] http://archive.forumpa.it/forumpa2006/convegni/relazioni/1347_giuseppe_labarile/1347_giuseppe_labarile.pdf
[2]Cfr. OECD, Corporate Governance of State-Owned Enterprises – A survey of OECD Countries, 2005, dove sisottolinea, nelleannotazioni al Cap. 1 “Ensuring an Effective legal and Regulatory Framework for State-OwnedEnterprises”, che “When streamlining the legal form of State-Owned Enterprises, governments should base themselves as much as possible on corporate law and avoid creating a specific legal form when this is not absolutely necessary for the objectives of the enterprise”.





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